Ci sono tanti motivi per appassionarsi a questo racconto. Sembra un testo sorpassato, figlio dei gusti e dell’occhio d’inizio Novecento, invece, il lettore attento ne scopre una straordinaria freschezza. Avevo preso in mano il libro con un certo distacco, più per curiosità che per vero interesse. Invece è stata subito una piacevole scoperta, che obbligava ad essere sfogliata. E alcune pagine, come fosse un esercizio naturale, volevano, addirittura, essere lette ad alta voce per assaporare tutte le loro sfumature che, a volte, solo col suono delle parole si scoprono.
Alfredo Panzini parte da Milano, in bicicletta, per arrivare in una borgata di pescatori su l’Adriatico in una casetta sul mare; questa borgata, “per l’aere puro, porta il nome di Bellaria”.
In biciletta fa tutto il viaggio di quasi trecento chilometri lungo le strade della pianura Padana con un’escursione sull’appennino Bolognese. Ha solo quarant’anni ma già si ritiene vecchio e stanco della vita frenetica, piena d’impegni, di Milano, dove vive e lavora abitualmente. Così parte l’undici luglio (1903) alle due del pomeriggio con la sua vecchia bicicletta, fatta sistemare per il lungo viaggio, impiegando cinque giorni: “Cadeva il quinto giorno da che ero partito da Milano, quando finalmente giunsi a Savignano. Qui – lasciata la via Emilia – mi internai per una ben nota stradicciola che corre lungo i meandri di un fiumicello, il quale va tanto superbo di un suo illustre nome antico (uno dei pretendenti al titolo di Rubicone) quanto povero di acque e di corso.”
Il suo viaggio lento, in quelle strade polverose d’inizio secolo, è una vera macchina del tempo, che ci offre un paesaggio italiano ricco di luoghi diversi, cieli stellati e di personaggi. La bicicletta di Panzini, col suo inoltrarsi nel ventre dell’Italia settentrionale (Lodi, Parma, Modena, Bologna, l’Appennino), propone delle fotografie preziose con spunti vivaci, propri di un acuto osservatore dalla robusta cultura classica con un’anima sensibile aperta alla vita e ricca di fine ironia.
Gran parte del racconto è dedicato alla suo soggiorno bellariese, e qui il diario di viaggio si fa ancora più ricco di persone, di colori, di miseria e nobiltà, con una galleria di personaggi, ognuno nel suo ambiente, ognuno col suo linguaggio e col suo netto profilo umano: il postino, la vecchia bacucca, paron Jusèf, Pirùzz il tabaccaio, il garzone del barbiere, il calzolaio, il giovane avvocato che vuol cambiare il mondo e altri ancora. La propensione verista, ancora forte in quegli anni dove l’Ottocento sembrava non voler finire, si sente tutta in questo racconto, che tuttavia, per molti aspetti, insisto, ha una sua modernità nell’incanto del paesaggio, nel disincanto rispetto alla vita, nella malinconia dolce del tempo che scorre via.
Dopo qualche anno, intorno al primo conflitto mondiale, Panzini inizia a essere un autore molto attivo. Collabora con diversi giornali (dal “Resto del Carlino” al “Corriere della Sera”) e s’impone come uno degli scrittori italiani più letti all’estero.
Duro il giudizio di Piero Gobetti su colui che giudica un modesto autore: “Panzini è diventato un professionista della letteratura, mette su due libri l’anno e sente il dovere di dire la sua sui principali avvenimenti che corrono. Ebbene, i giudizi di Panzini sui fatti del giorno non ci convincono: la sua filosofia non c’interessa.” Ancora più critica l’opinione di Antonio Gramsci, che nei “Quaderni dal carcere” lo considera paternalista e ipocrita: “l’imbecillità e l’inettitudine di Panzini di fronte alla storia sono incommensurabili”.
Ricordato doverosamente ciò: rimane la coinvolgente lettura di un diario che nel tempo, come il vino, diventa sempre più piacevole.
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