Il polverone e la spazzatura debordanti, senza freni, di questi giorni sul caso Consip, ci lascia senza parole. Lo spettacolo è di vero cabaret, con una trama così stralunata e fantasiosa che ci si potrebbe ridere sopra se non ci fosse di mezzo non solo la politica, non solo il leader del PD, ma gli stessi valori di rispetto, di serietà, di equilibrio fra i poteri, che devono regolare e rappresentare una società civile. Noi piccoli cronisti di provincia non abbiamo nulla da aggiungere rispetto ad alcuni interventi intelligenti che si colgono ogni tanto da qualche parte. Fra questi abbiamo scelto quello pubblicato dall’inserto del Sole 24 ORE che, molto volentieri, riportiamo su Ottopagine.
LA SOCIETA’ POST FATTUALE E NOI
di Christian Rocca
da Idee a Lifestyle del Sole 24 ORE del 6 marzo
La differenza tra noi e gli americani è che loro hanno Trump, ma anche una stampa adulta che non capitola di fronte al cialtronismo al potere, mentre noi abbiamo giornali e televisioni che fanno da palestra ideologica e da megafono al populismo reazionario, e non da ieri. New York Times, Washington Post, Wall Street Journal e gli altri non pongono dieci domande, non agitano post-it, non si atteggiano a professionisti dell’anticasta, soprattutto non esternalizzano gli articoli a carabinieri e pm, come capita da noi da 25 anni, ma si confrontano con difficoltà con un presidente noto per essere un baro e, dopo aver raccontato le cose che succedono, cercano di indagare, con penna e taccuino, non con fotocopie di verbali, se le cose dette dai men in the news corrispondono al vero oppure no. E in questo modo hanno scoperto che spesso le cose dette dai trumpiani non erano vere, a cominciare dai rapporti con i russi prima negati e poi ammessi in seguito agli articoli dei giornali scritti senza aiutino dei magistrati. Ci sono arrivati a patatrac fatto, dopo aver raccontato una campagna elettorale con la falsa equivalenza tra gli scandali clintoniani e le truffe trumpiste, ma ci sono arrivati.
Confrontate le formidabili inchieste giornalistiche americane di questi giorni con il caso Consip: una vicenda di appalti non assegnati, con un sistema giudicato non manipolabile, con scambio di soldi non trovato, per un’ipotesi di reato grottesca, il cosiddetto traffico di influenze inserito nel codice negli anni di Mario Monti, che sostanzialmente rende indagabile chiunque dica di conoscere un politico, anche a insaputa del politico medesimo. L’unico reato certamente commesso, al momento, è la fuga di notizie ovvero lo spiattellamento sui giornali di tutta l’inchiesta prima ancora che gli avvisi di garanzia, in teoria emessi a tutela degli indagati affinché possano difendersi, raggiungano le persone coinvolte. Una fuga di notizie che non solo mette nel frullatore mediatico la reputazione delle persone coinvolte, ma che danneggia anche la stessa inchiesta giudiziaria, tanto che i magistrati di Roma cui la vicenda è stata assegnata per competenza territoriale hanno tolto le indagini al nucleo operativo ecologico dei carabinieri di Napoli e aperto un fascicolo per scoprire chi ha passato illegalmente le notizie ai giornalisti.
Eppure abbiamo un paese bloccato da una settimana a discutere di pezzi di carta stracciati, ma trovati dai segugi della procura di Napoli in una discarica e poi sapientemente ricostruiti dal nucleo dei carabinieri locale, contenenti lettere che potrebbero o non potrebbero essere le iniziali di qualcuno. Assistiamo a nuovo serial politico, dopo i successi mediatici di cricche, strutture delta, nuove P2, siamo arrivati ormai alla P6, tempe rosse e assicurazioni sulla vita.
Tra le cose più comiche, e tragiche, di questa stagione anche articoli che riportano le intercettazioni ambientali tra gli indagati, evidentemente ascoltate non si sa a quale titolo dai giornalisti, che fanno credere al lettore di poter svelare il colpevole, salvo poi, come nella letteratura di consumo, chiosare con un «e a quel punto invece del nome si sente il rumore di una penna pigiata sul foglio» oppure «tra una parola e l’altra si sente il fruscio delle annotazioni». «Una penna pigiata sul foglio» e «il fruscio delle annotazioni». Tutto vero, eh. Vi stupite che con un pilastro fondamentale per la formazione dell’opinione pubblica ridotto in questo modo poi la gente voti i babbei a cinque stelle, creda ai complotti giudo-pluto-massonici e nelle more affossi l’unico esperimento riformatore, liberale e progressista degli ultimi vent’anni?
Prendete il Fatto quotidiano di sabato, giornale che al pari di Giornale e Libero e il surreale La Verità non mi azzardo ad aprire per paura di esserne contaminato. Il titolo principale di prima pagina, non sto scherzando, era questo: «Mr. X a Fiumicino avvisò babbo Renzi e l’uomo di Matteo allertò il fido Russo». Non è Cronaca Vera, ma il giornale che dà buchi a tutti sulle questioni che poi il giorno dopo finiscono in prima pagina sugli altri giornali, anche se non si capisce di che cosa stiano parlando (ripeto: nessun appalto assegnato, un sistema non manipolabile, un articolo del codice grottesco e un solo reato finora accertato, quello di chi ha diffuso le carte dell’inchiesta affinché ci fossero titoli come questo). Il sommario è ugualmente surreale: «Fuga di notizie sull’inchiesta Consip: lo strano blitz all’aeroporto, una conversazione. E poco dopo l’ex autista del leader dem avverte il socio del capofamiglia: “Mi ha detto di dirti di non chiamarlo”». Cinema puro. E a completare la sceneggiatura, il titolo subito sotto: «“È mamma Lalla che ha la chiavetta dei conti della Srl”», messo così, tra virgolette, attribuibile alle «carte», cioè la fonte unica del giornalista collettivo.
Ma non sono solo i giornali periferici a fare questi numeri. Magari fosse così. È una prassi comune a tutti i quotidiani generalisti, i quali pagano il peccato originale italiano di non avere una distinzione netta tra giornali seri e fogli tabloid come capita nel mondo anglosassone, con il risultato che mescolare giornalismo serio e pernacchia scandalistica non crea un nuovo modello, ma semplicemente legittima la pernacchia.
Vogliamo parlare del grande giornale della borghesia illuminata che dopo aver tecnicamente inventato l’ideologia anti casta con i formidabili Stella e Rizzo l’altro giorno ha sostenuto, e lo traduco in italiano corrente per come è passato, che “Starbucks ci sta arrubbando il caffè italiano, a noi noti coltivatori di caffè”?
Di nuovo, il problema non è il merito delle inchieste giudiziarie, che peraltro in buona parte dopo alcuni mesi o anni si sgonfiano in modo imbarazzante, anche se solo a pagina 23 e senza che nessuno degli aguzzini mediatici faccia un plissé. I reati sono reati, e stop.
Il problema invece è la post truth, la società post fattuale. Spesso viene confusa con le fake news, ma anche se il più delle volte viaggiano insieme, le fake news sono semplicemente notizie false, che ci sono sempre state. Mentre la post verità è la crescente inclinazione verso uno stile paranoico del dibattito pubblico per cui i fatti e la realtà non contano più, la società è più vulnerabile alle manipolazioni e le democrazie sono sotto scacco del pensiero-unico-della-pancia-del-paese. Trump e Grillo sono il sintomo di questa patologia, non la causa, tantomeno la cura. La causa siamo noi.